Codice Penale art. 630 - Sequestro di persona a scopo di estorsione 1 2 . 3

Giovanna Verga

Sequestro di persona a scopo di estorsione 12.3

[I]. Chiunque sequestra [289-bis, 605] una persona allo scopo di conseguire, per sé o per altri, un ingiusto profitto come prezzo della liberazione, è punito con la reclusione da venticinque a trenta anni [347 3, 407 2a n. 2 c.p.p.; 112 att. c.p.p.] 4.

[II]. Se dal sequestro deriva comunque la morte, quale conseguenza non voluta dal reo, della persona sequestrata, il colpevole è punito con la reclusione di anni trenta [586].

[III]. Se il colpevole cagiona la morte del sequestrato si applica la pena dell'ergastolo [575].

[IV]. Al concorrente [110] che, dissociandosi dagli altri, si adopera in modo che il soggetto passivo riacquisti la libertà, senza che tale risultato sia conseguenza del prezzo della liberazione, si applicano le pene previste dall'articolo 605. Se tuttavia il soggetto passivo muore, in conseguenza del sequestro, dopo la liberazione, la pena è della reclusione da sei a quindici anni.

[V]. Nei confronti del concorrente che, dissociandosi dagli altri, si adopera, al di fuori del caso previsto dal comma precedente, per evitare che l'attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero aiuta concretamente l'autorità di polizia o l'autorità giudiziaria nella raccolta di prove decisive per l'individuazione o la cattura dei concorrenti, la pena dell'ergastolo è sostituita da quella della reclusione da dodici a venti anni e le altre pene sono diminuite da un terzo a due terzi.

[VI]. Quando ricorre una circostanza attenuante [62, 62-bis], alla pena prevista dal secondo comma è sostituita la reclusione da venti a ventiquattro anni; alla pena prevista dal terzo comma è sostituita la reclusione da ventiquattro a trenta anni [289-bis 5]. Se concorrono più circostanze attenuanti [67], la pena da applicare per effetto delle diminuzioni non può essere inferiore a dieci anni, nell'ipotesi prevista dal secondo comma, ed a quindici anni, nell'ipotesi prevista dal terzo comma.

[VII]. I limiti di pena preveduti nel comma precedente possono essere superati allorché ricorrono le circostanze attenuanti di cui al quinto comma del presente articolo.

 

competenza: Corte d'Assise

arresto: obbligatorio

fermo: consentito

custodia cautelare in carcere: consentita, ma v. art. 275, comma 3, c.p.p.

altre misure cautelari personali: consentite

procedibilità: d'ufficio

[1] La Corte costituzionale, con sentenza 23 marzo 2012, n. 68, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell'articolo «nella parte in cui non prevede che la pena da esso comminata è diminuita quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità».

[2] Articolo così risultante per effetto delle innovazioni apportate prima dagli artt. 5 e 6 l. 14 ottobre 1974, n. 497, poi dall'art. 22d.l. 21 marzo 1978, n. 59, conv., con modif., nella l. 18 maggio 1978, n. 191, ed infine dall'art. unico l. 30 dicembre 1980, n. 894, ogni volta con sostituzione dell'intero articolo.

[3] In materia di intercettazioni, v. l'art. 1 d.l. 10 agosto 2023, n. 105, conv., con modif., in l. 9 ottobre 2023, n. 137.

Inquadramento

La fattispecie del sequestro di persona a scopo di estorsione è stata oggetto di numerosi interventi modificativi da parte del legislatore nell'ottica di un potenziamento della tutela della libertà individuale a scapito di quella relativa all'inviolabilità patrimoniale.

L'incremento del fenomeno dei sequestri di persona e la necessità di contrastarlo ha infatti portato il legislatore a modificare la norma in più riprese: da un lato inasprendo le pene e prevedendo ipotesi al limite della responsabilità oggettiva (Condorelli, 175), dall'altro contemplando ampie riduzioni di pena per gli autori che si fossero adoperati per ottenere la liberazione dell'ostaggio, senza il pagamento del riscatto.

In particolare una prima modifica, introdotta con l. n. 497/1974, prevedeva sia l'inasprimento delle pene per le ipotesi base del sequestro e quella aggravata dal conseguimento dell'intento, sia un'attenuante, con applicazione delle pene previste dall'art. 605, per colui che si fosse adoperato in modo che il soggetto passivo riacquistasse la libertà, senza che tale risultato fosse conseguenza del prezzo della liberazione.

Un'ulteriore e radicale modifica veniva attuata con l'art. 2, d.l. n. 59/1978, convertito con modificazioni nella l. n. 191/1978 che, oltre ad espungere dalla rubrica dell'art. 630 il riferimento alla rapina, eliminava il riferimento all'aggravante del conseguimento del prezzo, e introduceva le ipotesi della morte dell'ostaggio, quale conseguenza voluta o meno del sequestro, ed una ipotesi attenuata per il caso in cui la persona sequestrata venisse liberata senza il pagamento del riscatto.

L'ultima modifica intervenuta con l. n. 894/1890 ha portato l'art. 630 alla formulazione tuttora in vigore.

Dal punto di vista strutturale il delitto in esame si colloca tra l'estorsione, da cui mutua la componente soggettiva, ed il sequestro di persona del quale ripropone la componente materiale. Occorre precisare che non si è in presenza di una forma aggravata di sequestro o di estorsione bensì di un'autonoma figura di reato. Il delitto si inserisce nell'ambito della categoria dei reati plurioffensivi. L'oggettività giuridica tutelata è rappresentata prevalentemente dal bene della libertà personale, pur sottostando alla figura criminis in esame anche l'interesse alla protezione dell'integrità patrimoniale.

Sulla strada della classificazione del reato di sequestro di persona a scopo di estorsione fra i reati plurilesivi si è costantemente orientata la giurisprudenza quando ha affermato che il bene della libertà personale, tutelato in via principale dall'art. 605, trova ulteriore tutela, unitamente al patrimonio, nella previsione dell'art. 630 (Cass. I, 15 novembre 1977).

La Suprema Corte, chiamata a pronunciarsi sull'eccezione di incostituzionalità dell'art. 630, dopo le modifiche introdotte nel 1978, per contrasto con l'art. 13 Cost. nella parte in cui prevede una pena diversa da quelle fissate in via generale con l'art. 23, ha individuato un ulteriore oggetto delle tutela negli interessi della collettività nazionale. Ha infatti affermato la Corte che la sperequazione di pena trova la sua ragionevole giustificazione in considerazione del fatto che «il delitto non offende solo il patrimonio e la persona, ma anche la collettività nazionale, con gli effetti deleteri che si producono su attività economiche di notevole valore sociale e con lo spostamento di ricchezze verso organizzazioni criminali, con conseguente potenziamento delle stesse e crescente pericolo per la collettività» (Cass. I, 28 dicembre 1984).

Soggetto attivo e soggetto passivo

Soggetto attivo può essere chiunque, trattasi pertanto di reato comune.

Soggetto passivo del reato è qualunque persona che possa essere privata della libertà personale, esattamente secondo quanto previsto dall'art. 605. Tale interpretazione, condivisa dalla unanime dottrina, ha portato a soluzioni estreme quali l'affermazione che il neonato non può essere privato della libertà personale, intesa come libertà di movimento, perché non la possiede.

Tale orientamento si ritrova anche in una pronuncia di merito (Trib. Pavia 17 luglio 1984) che dopo avere individuato fra gli elementi costitutivi della libertà personale il movimento, inteso come libertà, anche limitata di spostarsi nello spazio e volontà di scegliere e determinare tale movimento, ha concluso che ad un neonato non può essere attribuita alcuna capacità di esplicare efficacemente, se pure in modo puramente istintivo, la propria volontà in relazione alla libertà personale. Il Tribunale riteneva comunque la sussistenza del reato di cui all'art. 630 considerando che l'intimidazione conseguente all'abductio e tesa a conseguire l'ingiusto profitto fosse rivolta non già nei confronti del neonato, bensì di coloro che ne esercitavano la potestà o la custodia o la vigilanza, e cioè i soggetti passivi dell'estorsione.

La Cassazione (Cass. I, 15 novembre 1977) dal canto suo ha ritenuto che sia l'infans che l'amens possano essere vittime del reato di sequestro di persona a scopo di estorsione, in quanto non può escludersi anche in capo a loro, sia pure attraverso l'ausilio di coloro che ne hanno la legale rappresentanza, una certa libertà di movimento. Le conclusioni cui è giunta la giurisprudenza, frutto di un tentativo ermeneutico diretto ad evitare le conseguenze cui l'interpretazione dottrinale prevalente portava, non possono andare esenti da critiche. L'interpretazione data dal Tribunale di Pavia non appare convincente poiché non considera che sempre la richiesta estorsiva è diretta a soggetti terzi, l'interpretazione data dalla Cassazione deve ricorrere ad una fictio, nel momento in cui afferma che il neonato è libero perché lo sono coloro che esercitano su di lui un potere di custodia o vigilanza.

In una successiva pronuncia (Cass. n. 48744/2011) i giudici della Suprema Corte hanno affermato che la qualità di incapace della vittima non può impedire la tutela apprestata dall'art. 630, diretta anzitutto a preservare il bene della libertà di ogni soggetto, considerato anche che la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto configurabile la violazione dell'art. 605, e non quella dell'art. 574 (sottrazione d'incapace), anche ai danni di un minore, quale che sia la sua età (Cass. I, n. 1841/1994; Cass. n. 2613/1966; Cass. n. 763/1991), sul presupposto che soggetto passivo del delitto previsto dall'art. 605 può essere anche qualsiasi persona giuridicamente incapace di agire e di far valere i propri diritti (Cass. V, n. 6220/2011; Cass. n. 1841/1994) Tanto premesso, veniva sottolineato che libertà personale non è soltanto libertà di locomozione, ma comprende tutte le possibili estrinsecazioni della libertà personale stessa, quali, ad esempio, le relazioni interpersonali (Cass. III, n. 8048/1997; Cass. n. 827/1970; Cass. n. 274/1973). È proprio il criterio del pregiudizio alle relazioni personali che assume assoluta dominanza ed immanenza, nel caso di un minore sequestrato dell'età di mesi cinque, e per il quale il criterio della «libertà di locomozione», naturalmente non percepibile nella sua compressione dall'infante, diventa parametro accessorio, rispetto appunto alle indicate «relazioni personali», queste sì dolorosamente percepibili dalla piccola vittima, privata degli usuali ed essenziali riferimenti affettivi ed ambientali. In tale prospettiva quindi, la cesura, violenta e radicale delle relazioni della vittima, veniva apprezzata come dato oggettivo, prioritario e costitutivo della violata «libertà personale», tutelabile ex art. 630 ricorrendo, come nella specie, gli altri elementi costitutivi del detto delitto.

In dottrina per superare l'impasse c'è chi (Padovani, Il sequestro di persona e l'identificazione della libertà tutelata, in Riv. dir. proc. pen. 1985, 605) ha fatto ricorso ad una interpretazione del concetto di libertà personale, che prendendo le mosse dalla lettura costituzionale (art. 13 Cost.) classifica la libertà personale fra le libertà «situazioni» (Amato, sub art. 13, in Comm. Cost. Branca, Bologna-Roma, 1977, 2) e dunque non solo libertà di movimento — agire muoversi, spostarsi — ma, soprattutto, libertà da misure coercitive: «il soggetto è libero nella persona non in quanto sia capace di muoversi, ma in quanto non siano attuati sul suo corpo interventi coattivi che, di per sé ed obiettivamente, sottraggono l'essere fisico alle relazioni spaziali intercludendolo» (Padovani, 613). La libertà personale è dunque libertà da misure coercitive sul corpo. Ne consegue che il sequestro non implica che sia impedito il movimento autonomo, ma che sia imposto coercitivamente un ambito spaziale circoscritto e che pertanto possa esserne vittima anche chi non può fruire di libertà di movimento come il neonato, il comatoso, il paralitico, ecc.

Materialità

La giurisprudenza, tradizionalmente ritiene il reato in questione fattispecie criminosa complessa (art. 84) perché confluiscono in essa, come elementi costitutivi, fatti che costituirebbero per se stessi reato.

Il reato è infatti caratterizzato dall'uso di un mezzo-sequestro di persona da cui si differenzia per lo scopo perseguito di un ingiusto profitto come prezzo della liberazione. I due elementi costitutivi — sequestro di persona ed estorsione — del reato complesso si realizzano non appena l'agente ha privato la vittima della sua libertà personale al fine di ottenere il prezzo della sua liberazione, non essendo chiesto anche il pagamento del riscatto.

In particolare le Sezioni Unite della Corte di Cassazione nella sentenza Cass. S.U., n. 962/2004 hanno affermato che il sequestro di persona a scopo di estorsione è stato ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità una figura autonoma di reato, qualificabile come reato complesso, poiché confluiscono in esso, in guisa di elementi costitutivi, fatti che costituirebbero per sé stessi reato, ai sensi dell'art. 84, escludendo specificamente che possa considerarsi "ipotesi delittuosa aggravata del sequestro di persona, dal quale si differenzia per il dolo specifico, che si concretizza nello scopo perseguito, per sé o per gli altri, di un ingiusto profitto come prezzo della liberazione”.

È noto che per configurare un reato complesso è necessario che una norma di legge operi la fusione in un'unica ipotesi criminosa dei fatti costituenti reati autonomi.

La figura di reato delineata dall'art. 630, comma 1, si compone di una parte oggettiva-comportamentale (il sequestro di persona: «Chiunque sequestra una persona») e di una parte soggettiva-teleologica («allo scopo di conseguire... un ingiusto profitto come prezzo della liberazione»): la componente materiale coincide anche nominalmente con il reato previsto dall'art. 605, del quale riproduce la rubrica; la componente subbiettiva è strutturata da una forma di dolo attinente al delitto di estorsione (art. 629).

Nella sentenza è stato affermato che il legislatore ha connotato di dolo specifico una forma peculiare di violenza, delimitando l'area della violenza generica atta a configurare (in alternativa alla minaccia) l'estorsione, con quella forma particolare di violenza che è il sequestro di persona, cioè la privazione della libertà personale di un soggetto.

Di modo che la figura delineata dall'art. 630, comma 1, piuttosto che essere l'unione di due modelli criminosi «semplici», il sequestro di persona e l'estorsione, risulta composta dall'elemento oggettivo del sequestro di persona, arricchito con elementi propri dell'estorsione. Rispetto all'estorsione, invero, il verificarsi del «danno» ed il conseguimento del «profitto ingiusto» non costituiscono eventi in senso naturalistico necessari per la sussistenza del reato: mentre il danno finisce per identificarsi nella lesione arrecata dalla condotta all'interesse protetto, il profitto ingiusto è solo oggetto del dolo specifico e rimane privo di rilevanza agli effetti della consumazione del reato.

In questo senso si può parlare più propriamente — come evidenzia la dottrina — di fattispecie «a doppia specialità» o a «specialità reciproca».

Il reato, come delitto contro il patrimonio è ritenuto reato di pericolo, a differenza delle estorsione, perché non esige per la sua consumazione che il profitto voluto dal colpevole sia realizzato. Considerato invece dal punto di vista dell'elemento relativo alla libertà personale è reato di danno.

Ai fini della configurabilità del delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione, è sufficiente anche la sola promessa di pagamento di una somma di denaro da parte della vittima, a condizione che tale impegno si ponga in relazione causale rispetto al raggiungimento della libertà, in quanto il conseguimento del profitto non rappresenta l'evento naturalistico della fattispecie. (Cass. VI, n. 36404/2015: in applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto corretta la qualificazione ai sensi dell'art. 630 di una fattispecie in cui la vittima si era determinata a promettere il pagamento di 50.000 euro ai suoi sequestratori dopo essere stata chiusa per un'ora nel bagagliaio di un'auto, legata mani e piedi).

La condotta incriminata è identica a quella prevista dall'art. 605 e consiste dunque nel privare taluno della libertà personale, intesa quale mera possibilità di libero movimento nello spazio.

Perché si configuri il reato di cui all'art. 630 è sufficiente che il soggetto passivo subisca una limitazione della libertà personale, quali ne siano il grado e la durata, il luogo in cui avvenga, i mezzi utilizzati per imporla (Cass. I, 15 luglio 1998; Cass. II, 18 aprile 1989; Cass. II, 16 febbraio 1985), non vi è correlazione con il momento in cui si consegue il profitto (Cass. II, 15 gennaio 1988; Cass. II, 24 maggio 1984). Non è rilevante l'entità del prezzo pagato perché per configurare la fattispecie legale di tale reato è sufficiente una limitazione della libertà personale mentre sono irrilevanti: il grado di privazione della libertà, la durata di essa, i mezzi usati per imporla e l'entità della somma imposta per la liberazione (Cass. I, 15 ottobre 1966). La limitazione della libertà personale della vittima può realizzarsi, oltre che con la coercizione fisica che impedisce in concreto ogni libertà di movimento, anche attraverso l'inganno, sempre che questo sia idoneo a creare nel soggetto passivo l'apparenza di un pericolo, per la sua incolumità o per il suo patrimonio, tale da indurlo ad autolimitarsi (Cass. V, n. 6427/2015).

Una volta accertato il momento della privazione, di fatto, della libertà di locomozione è irrilevante che il soggetto passivo abbia preso coscienza dell'avvenuto sequestro solo in un momento successivo (Cass. II, 18 settembre 1989).

Elemento soggettivo

Il legislatore ha ritenuto di dare funzione qualificante e specializzante del reato proprio all'elemento soggettivo: non può infatti non essere evidenziata la funzione svolta nel delitto in esame dal dolo specifico.

È stato notato che la condotta della privazione della libertà si presta facilmente ad essere funzionale a scopi ulteriori; sì che anche sotto il profilo della tecnica normativa, il legislatore ha delineato più fattispecie di sequestro qualificato di persona e ne ha affidato il tratto differenziale al dolo specifico, che ne ha condizionato anche la collocazione in titoli diversi del codice penale (v. la figura in esame e quella parallela di cui all'art. 289-bis, il reato previsto dall'art. 3 l. n. 718/1985, ovvero i reati descritti dagli ora abrogati artt. 522 e ss.).

Sotto questo aspetto può ritenersi ancora in certo qual modo giustificata la collocazione della fattispecie criminosa in esame nell'ambito della categoria dei delitti contro il patrimonio, tendendo a rimarcare la specifica intenzionalità dell'agente come condizione costitutiva del modello legale. Se, invero, tale reato ha natura plurioffensiva, poiché l'oggetto della tutela penale si identifica sia nella libertà personale, sia nell'inviolabilità nel patrimonio, il tratto che ha sempre costituito il suo elemento fondante è la «mercificazione della persona umana»: la persona è strumentalizzata in tutte le sue dimensioni, anche affettive e patrimoniali, rispetto al fine dell'agente; è, in altre parole, resa merce di scambio contro un prezzo, come risulta dalla stretta correlazione posta tra il fine del sequestro, che è il profitto ingiusto, e il suo titolo, cioè, appunto, il prezzo della liberazione (v. Cass. n. 8048/1997, Cass. S.U. n. 962/2004).

L'elemento psicologico è quello che distingue il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione da quello di sequestro di persona previsto dall'art. 605 essendo quest'ultimo reato caratterizzato dal dolo generico, mentre il primo da quello specifico ravvisabile nell'intento di ottenere un profitto, come prezzo della liberazione.

Il profitto deve essere ingiusto, e lo è sempre quando l'utilità richiesta non è legittimamente dovuta.

Secondo la giurisprudenza l'ingiusto profitto cui deve essere finalizzata l'azione dell'agente si identifica in qualsiasi utilità, anche di natura non patrimoniale, che costituisca un vantaggio per il soggetto attivo del reato. (Cass. V 21579/2015: fattispecie in cui la Corte ha ritenuto corretta la sentenza che aveva ravvisato il delitto in questione nel sequestro di una donna, dedita alla prostituzione e sfruttata da un gruppo criminale, effettuato al fine di costringere quest'ultima a consegnare il documento di identità di altra ragazza, passata nel frattempo sotto la protezione dell'imputato).

Si veda anche Cass. V, n. 8352/ 2016  che ha affermato che nel delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione, l'ingiusto profitto cui deve essere finalizzata la condotta dell'agente si identifica in qualsiasi utilità, anche di natura non patrimoniale, che costituisca un vantaggio per il soggetto attivo del reato o per il terzo nel cui interesse egli abbia agito, rimanendo irrilevante, nel caso di concorso di persone nel reato, che lo scopo perseguito, ancorché comunque tipico, non sia identico per tutti i correi.

Il profitto ingiusto deve essere perseguito come prezzo della liberazione del sequestrato.

Il prezzo è la controprestazione che viene imposta quale corrispettivo della liberazione della persona: prezzo e liberazione sono i due poli dello specifico sinallagma. La ricerca di questo corrispettivo può però essere volta a conseguire sia il vantaggio che deriva direttamente dal prezzo (e quindi ad ottenere un profitto comunque ingiusto), sia il vantaggio che deriva da un rapporto pregresso. La Suprema Corte, pronunciatasi a S.U. (Cass. n. 962/2004) ha affermato che se la pretesa dell'agente ha titolo in un negozio avente causa illecita, il profitto perseguito è ingiusto; e non si vede perché se ad essa si accompagni la segregazione del soggetto passivo, e la liberazione di questo sia condizionata al pagamento di un prezzo, la condotta del sequestratore debba essere scissa in due fatti-reato — sequestro di persona ed estorsione —il secondo dei quali presuppone comunque l'ingiustizia del profitto.

Il binomio normativo «ingiusto profitto come prezzo della liberazione» non esclude che il perseguimento del prezzo del riscatto tragga il movente da preesistenti rapporti illeciti, limitandosi a collegare l'azione ricattatrice alla prospettiva della liberazione del sequestrato. L'agente infatti non ha una pretesa tutelabile dalla legge da far valere; sicché in realtà l'utilità non dovuta che il ricattatore persegue rappresenta null'altro che il corrispettivo della liberazione dell'ostaggio.

In definitiva si è affermato che il delitto previsto dall'art. 630 è un reato plurioffensivo, nel quale l'elemento obbiettivo del sequestro viene tipizzato dallo scopo di conseguire un profitto ingiusto dal prezzo della liberazione; ne consegue che ove ricorrano i due elementi della privazione della libertà personale e della finalità di ottenere un profitto come prezzo della liberazione, si verifica quella forma particolare di delitto che è prevista dall'art. 630; ogni scissione del fatto unitario è priva di qualsiasi fondamento nella legge, in quanto si lucra un prezzo per la liberazione anche quando la vittima sia sequestrata per riscuotere, a mezzo della sua liberazione, un vantaggio patrimoniale ingiusto che trovi la sua causa in un rapporto già esistente tra sequestratore e vittima.

La menzione specifica del «prezzo della liberazione» ha la funzione di sottrarre all'area di applicabilità dell'art. 630 fatti di sequestro di persona in cui l'ingiusta utilità perseguita non si pone come corrispettivo per la liberazione dell'ostaggio, ma ad altro titolo, come ad esempio quando l'agente pretenda un compenso per rendere meno gravosa la condizione del sequestrato. Pertanto alla domanda se la condotta criminosa consistente nella privazione della libertà di una persona, finalizzata a conseguire come prezzo della liberazione una prestazione patrimoniale, anche se pretesa in esecuzione di un precedente rapporto illecito, integri il delitto, di cui all'art. 630, le S.U. hanno dato risposta affermativa.

In tal senso la giurisprudenza successiva (Cass. V n. 12762/2006; Cass. I n. 16177/2010; Cass.I n. 17728/2010da ultimo Cass. II n. 14974/2018).

Secondo la dottrina (Pagliaro, Principi di dir. pen., parte spec., III, 2003, 226) «si riscuote un prezzo per la liberazione anche quando la vittima sia sequestrata per riscuotere, a mezzo della sua liberazione, un vantaggio giusto o ingiusto che trovi la sua causa in un rapporto già esistente tra sequestratore e vittima». L'Autore specifica, tuttavia, subito dopo, che «se il profitto è ingiusto, vi è sequestro di persona a scopo di estorsione; se il profitto è giusto o ritenuto tale, vi è il sequestro di persona ex art. 605, in concorso con il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni».

Sulla necessità, in generale, dell'ingiustizia del profitto ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 630, dandosi luogo altrimenti a diverse e meno gravi figure di reato, risulta, del resto, attestata — sulla scorta del testuale dato normativo — la gran parte della dottrina. Si vedano, per tutti: Manzini, Trattato di dir. pen. it.,IX, 1984, secondo cui: «Il profitto dev'essere ingiusto, e lo è sempre quando l'utilità richiesta non è legittimamente dovuta. Non si deve confondere l'ingiustizia del profitto con quella del prezzo della liberazione, la quale è necessariamente costante. Se il colpevole mette a prezzo la liberazione del sequestrato compie necessariamente un atto ingiusto, ma può compierlo per conseguire un profitto in sé giusto. Così, ad esempio, se un creditore priva della libertà personale il debitore, condizionando la liberazione al pagamento del debito, commette un fatto ingiusto per conseguire un profitto giusto, e quindi non è imputabile di ricatto, bensì del delitto previsto dall'art. 393».

Mantovani (187), per il quale «Se il fine di profitto è in sé giusto si ha il reato dell'art. 393 (es.: sequestro del debitore per costringerlo al pagamento del debito)»; Ronco (139), il quale afferma: «Il profitto in vista del quale opera l'agente deve essere ingiusto. Una siffatta connotazione inserisce nel reato un requisito ulteriore rispetto all'ingiustizia che scaturisce dal mettere a prezzo la liberazione dell'ostaggio e suppone che l'agente non abbia alcun titolo che renda non ingiusto oggettivamente il profitto costituente il fine dell'azione». Anche quest'ultimo Autore, per indicare un caso di profitto non ingiusto, ricorre al consueto esempio del creditore che sequestra il proprio debitore, non mancando, tuttavia, di avvertire che: «Se però, attraverso il sequestro del debitore, si pretende da terzi il pagamento ovvero, privato un terzo della libertà, si pretende dal debitore il pagamento come prezzo della liberazione del primo, il profitto oggetto del fine è comunque ingiusto, perché nessun titolo di credito può rendere non ingiusto il pagamento del terzo o l'inserzione nel rapporto tra creditore e debitore di una persona estranea ad esso».

D'altra parte, come puntualizzato, fra gli altri, da Mantovani (186), non basta, per la configurabilità del reato di cui all'art. 630, che il sequestratore abbia di mira un ingiusto profitto, ma occorre che questo costituisca, nella sua intenzione, il «prezzo per la liberazione», per cui, ove quello perseguito sia "un vantaggio ad altro titolo (es.: per rendere meno gravosa la prigionia del sequestrato), si ha concorso dei reati degli artt. 605 e 629.

Va poi segnalato che in dottrina si è anche sostenuta, sia pure da posizioni minoritarie (Brunelli, 225), la tesi secondo cui, in realtà, contrariamente all'orientamento tradizionale, la espressa previsione, nella norma incriminatrice, della «ingiustizia» del profitto perseguito «come» prezzo della liberazione «non impone una sola lettura, ma sembra poter accreditare anche l'ipotesi che l'aggettivo, senza introdurre un elemento in più nella fattispecie, si limiti a riassumere pleonasticamente i contenuti illeciti del fatto»; ipotesi che l'Autore finisce poi per assumere definitivamente come valida, sulla base della ritenuta offensività della condotta essenzialmente nei confronti della persona sequestrata e non del patrimonio (suo o dei soggetti cui si chiede il pagamento del riscatto), affermando che: «Imporre un prezzo per la liberazione di una persona di cui si è conseguita la disponibilità implica il proporsi di raggiungere un profitto “ingiusto”, stante l'offesa gravissima che per tale via viene arrecata alla persona sequestrata, si inquadri o no l'intento all'interno di una situazione di pretesa riconosciuta o tollerata dall'ordinamento» (op. cit., 226, 227). Nè, a maggior ragione, vi perviene chi (Dalia, 202), afferma addirittura che, avuto riguardo all'attuale formulazione della norma incriminatrice, quella delineata nell'art. 630 costituisce una «ipotesi di tutela esclusiva della libertà personale», senza però affrontare, poi, il problema della rilevanza o meno dell'ingiustizia del profitto perseguito dall'agente; problema che non risulta oggetto di particolare considerazione neppure da parte di Gallo e Pioletti (voce «Sequestro di persona a scopo di estorsione», in Dig. disc. pen., 1997). Anche detto ultimo Autore, non manca, tuttavia, di ricordare (242), che: « È essenziale, per la configurabilità del delitto, il dolo specifico consistente nello scopo di conseguire dal sequestro, per sé o per altri, un ingiusto profitto come prezzo della liberazione», consistendo in questo particolare scopo l'elemento di differenziazione rispetto all'art. 605; ed, ancora, che esula la configurabilità del sequestro estorsivo, sussistendo invece quella del sequestro di persona ordinario e dell'estorsione, quando «lo scopo di conseguire l'ingiusto profitto è estraneo alla liberazione della vittima, non ponendosi come prezzo della liberazione di questa».

In giurisprudenza si è affermato che comunque integra il reato di sequestro di persona a scopo di estorsione di cui all'art. 630, e non il concorso del delitto di sequestro di persona con quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone (artt. 605 e 393 dello stesso codice), la privazione della libertà di una persona finalizzata a conseguire, come prezzo della liberazione, una prestazione patrimoniale eccedente il credito, azionabile in sede giudiziaria, vantato nei confronti della persona offesa (Cass. VI, n. 45064/2015). In proposito si registra anche un indirizzo giurisprudenziale più rigoroso che non distingue il tipo di pagamento che si vorrebbe ottenere come prezzo della liberazione ed afferma che la violenta privazione della libertà personale della parte offesa per un rilevante periodo di tempo al fine di ottenere la corresponsione di una somma di denaro, quale prezzo della liberazione, esclude ogni ragionevole intento di far valere un presunto diritto, con la conseguenza che è da ritenere insussistente l'ipotesi di cui all'art. 393 (Cass. I, n. 14802/2012; Cass. VI, n. 47533/2013)

Il profitto è ingiusto quando costituisce il prezzo della liberazione della vittima e non quando sia collegato all'avvenuta prestazione di servizi, anche di natura illecita, in favore di soggetti che versano in stato di necessità, potendo in tali casi eventualmente ravvisarsi il diverso reato di usura (Cass. V, n. 6427/2014: Fattispecie in cui la Corte ha annullato la sentenza impugnata ritenendo non qualificabile come ingiusto, a norma dell'art. 630, il profitto costituito dal corrispettivo richiesto dall'imputato ad alcuni clandestini per il vitto e l'alloggio fornito in un casolare — nel quale erano stati da lui indotti a fermarsi — e per il loro trasferimento in un'altra città; Cass. I, n. 13388/2012: nella specie, la S.C. ha annullato l'ordinanza del Tribunale della libertà ritenendo non configurabile il sequestro di persona in relazione al caso di una prostituta ridotta in stato di schiavitù e costretta ad esercitare il meretricio nella prospettiva di affermarsi, ma non direttamente privata della libertà personale).

Consumazione e tentativo

La giurisprudenza ha costantemente classificato il reato di sequestro di persona a scopo di estorsione fra i reati permanenti a consumazione anticipata che si realizzano nel momento in cui vengono attuati tutti gli elementi costitutivi, non essendo richiesto né che cessi la permanenza né che sia pagato il riscatto (Cass. II, 18 marzo 1993; Cass. II, 8 ottobre 1985; Cass. I, 26 aprile 1983), attenendo il momento della cessazione della permanenza unicamente al momento consumativo del reato (Cass. II, 16 febbraio 1985).

Non è mancato in dottrina chi ha criticato tale impostazione, in particolare sottolineando come, in tal modo, per la rilevanza del fatto e per la sua punibilità, non solo si richiedono atti in sé non dotati di una effettiva capacità offensiva nei confronti del bene tutelato (patrimonio), ma anzi ci si accontenta di una mera direzione soggettiva dei medesimi avallando di fatto formule legislative di cui il mero intento psichico viene a costituire l'unico elemento di pericolo che giustifica la punibilità [Folla, Un discutibile continuum giurisprudenziale (a proposito degli artt. 630 e 114), in Giur. it., 1995, 47]. In tal modo il reato di cui all'art. 630 diventerebbe pertanto un reato avente fra i suoi elementi costitutivi volontà non realizzate, sulle quali essenzialmente, troverebbe fondamento la punibilità della fattispecie. Senza contare che tale classificazione porterebbe a conferire un ruolo determinante al bene giuridico patrimoniale: tanto da legittimare una previsione normativa in cui il patrimonio è tutelato addirittura in ordine ad una lesione potenziale rappresentata da un mero intento psicologico (Folla, 48).

Altri autori, proprio in considerazione della natura permanente del reato, pur ritenendo la privazione della libertà personale condizione necessaria per la consumazione del reato, non la considerano sufficiente. Sarebbe infatti, secondo questo orientamento, indispensabile accanto al requisito della privazione della libertà quello, ulteriore, della durata, con la conseguenza che la mera privazione della libertà per un tempo non apprezzabile costituirebbe solo tentativo. Tale interpretazione trova il suo fondamento nello stesso art. 630, comma 4, dove, poiché si richiede per il riconoscimento della relativa attenuante che l'autore del reato «si adoperi» per la liberazione del sequestrato, implicitamente si fa riferimento ad una situazione che si protrae nel tempo (Condorelli, 179).

La natura permanente del reato e la sua classificazione fra quelli a consumazione anticipata ha ovviamente rilevanti conseguenze sul piano del tentativo e della rilevanza della desistenza volontaria. Infatti, se per la consumazione del reato è sufficiente che la vittima sia privata della libertà personale, il tentativo sarà ipotizzabile solo nei limiti in cui non sia iniziata la privazione della libertà dell'ostaggio, pur essendo stati posti in essere atti idonei e inequivocabilmente diretti a tal fine (Cass. II, 8 ottobre 1985; Cass. II, 23 ottobre 1984; Cass. I, 11 gennaio 1972). Sulla scia di tale interpretazione si è pertanto ritenuto di configurare il tentativo di sequestro di persona nel caso degli imputati che attendevano nei pressi dell'abitazione della vittima designata a bordo di un'automobile di grossa cilindrata, con armi, cappucci, cloroformio, etere, manette e tamponi auricolari, con la presenza di un'autovettura di appoggio, in ora notturna e in luogo non frequentato, ed ancora nel reperimento dopo un conflitto a fuoco con le forze dell'ordine di un'autovettura con sportelli aperti, contenente fra l'altro vari indumenti, una maschera per il volto e un pacco di cibarie.

Per gli stessi motivi diviene irrilevante, ai fini della desistenza volontaria e del recesso attivo, che presuppongono che l'evento non si sia verificato, la eventuale liberazione del soggetto passivo, che fa cessare la permanenza, ma non incide sul reato già consumato (Cass. I, 26 aprile 1983). Da ultimo la Suprema Corte ha affermato l'applicabilità della causa di non punibilità e della condizione di non procedibilità, di cui all'art. 649, commi 1 e 2, anche all'ipotesi tentata del delitto di cui all'art. 630, che non sia commessa con violenza alla persona (Cass. II, n. 24643/2012; Cass. n. 5504/2013).

Concorso di persone

Pur se di natura eventuale il concorso di persone si presenta come una componente costante del modo di manifestarsi del reato. La Corte di Cassazione ha ritenuto che, accertato il concorso di più persone nella realizzazione del reato, le condotte dei vari compartecipi si pongono sullo stesso piano e il giudice non ha l'obbligo di individuare il ruolo di ciascuno di essi nella commissione del reato, avendo tutte le condotte valore determinante e risolutivo. Ne consegue che non è applicabile al reato in questione l'attenuante della minima partecipazione di cui all'art. 114. Questo atteggiamento rigoristico è stato ritenuto anche per i portatori di messaggi o corrispondenza finalizzati al conseguimento del riscatto. È stato inoltre ribadito che l'attività del correo può essere rappresentata da qualsiasi forma di compartecipazione, da un contributo di ordine materiale o psicologico a tutte o alcune delle fasi della ideazione, organizzazione ed esecuzione dell'impresa criminosa. Pertanto se è vero che la semplice consapevolezza della commissione del reato non costituisce concorso morale, in quanto per questo si richiede almeno il volontario rafforzamento, il contributo ideologico o, quanto meno, un'incidenza sul determinismo psicologico dell'autore del reato, è però altrettanto vero che l'attività del correo può essere rappresentata da qualsiasi forma di compartecipazione, da un contributo di ordine materiale o psicologico a tutte o ad alcune delle fasi di ideazione, organizzazione ed esecuzione dell'impresa criminosa. (Cass. II n. 8017/1992: nella specie, relativa ad annullamento con rinvio, la S.C. ha ritenuto che se dagli atti risultava un qualche contributo dato dall'imputato al protrarsi del sequestro nel tempo — per l'aiuto psicologico offerto al suo datore di lavoro, accompagnandolo sia pure non frequentemente al luogo di prigione dell'ostaggio, e l'ausilio dato di sequestratori, continuando ad esplicare «nello stesso modo» la propria attività lavorativa pur sapendo che sul terreno sul quale lavorava era in atto un sequestro di persona, e quindi, fornendo una copertura «all'impresa» criminosa in svolgimento creando una parvenza di «normalità», non poteva poi escludersi con certezza il concorso del predetto, sia pure quale partecipe e non come correo).

La morte del sequestrato

L'attuale formulazione della norma prevede due ipotesi di morte dell'ostaggio: come conseguenza voluta (art. 630, comma 3) o non voluta (art. 630, comma 2) del sequestro, la seconda rileva anche qualora avvenga dopo la liberazione, ma come diretta conseguenza del sequestro.

Il secondo comma dell'art. 630 prevede un aggravamento di pena (anni 30 di reclusione) se dal sequestro deriva comunque la morte, quale conseguenza non voluta dal reo.

L'orientamento prevalente considera l'ipotesi in esame quale delitto qualificato dal'evento, applicando a ciascuno dei correi l'aggravamento di pena a titolo di responsabilità oggettiva, cioè per la sola esistenza di un nesso di causalità tra reato, condotta criminosa e morte dell'ostaggio. Ciò significa che il disposto del secondo comma dell'art. 630 è destinato a trovare applicazione tutte le volte in cui la morte non sia voluta né conosciuta dall'agente, ma sia comunque derivata dal sequestro e ciò perché l'ulteriore evento è sempre ricollegabile alla condotta criminosa tipica di sequestro di persona a scopo di estorsione. È stato affermato che nel momento in cui il legislatore ha recepito un dato sociale — quale la frequenza, nei sequestri, della morte del sequestrato — ha anche ritenuto di considerare la morte di costui come conseguenza possibile del sequestro, sicché questa, alla stregua degli attuali normali accadimenti, è legata al sequestro sotto il profilo del nesso causale e, per tale ragione, va sempre imputata al reo, anche se non voluta, essendo irrilevante ogni atteggiamento psichico di inerzia (o di comodo agnosticismo) al cospetto di una realtà, normativa sì ma desunta da un'esperienza condotta su elementi effettuali, che conferisce al fatto iniziale (sequestro) la potenziale produttività dell'ulteriore evento; una forza cioè che rientra nella normale prevedibilità da parte dell'agente, quale elemento soggettivo sufficiente ad integrare in concreto la fattispecie in discorso. (così Cass. V n. 11407/1991: la Cassazione ha altresì evidenziato che, stante la congiunzione «comunque» che figura nel suddetto comma la rilevanza della morte può essere esclusa solo se l'evento sia totalmente al di fuori del nesso causale col sequestro, come quando ad es. il rapito venga ucciso da persone e per ragioni totalmente estranei al sequestro e senza che i sequestratori abbiano potuto evitarla pur avendo posto in essere tutte le difese a loro disposizione).

È stato però sottolineato come l'accoglimento di tale teoria porterebbe ad individuare nella previsione di cui all'art. 630, comma 2, una ipotesi di responsabilità oggettiva, in contrasto con il dettato costituzionale, e che inoltre si collocherebbe al di fuori di ogni altra previsione codicistica o di leggi speciali. Si è ritenuto pertanto che una corretta interpretazione della norma non potesse prescindere dai principi enunciati dalla Corte costituzionale a proposito dell'art. 116, quando ne ha escluso la riconducibilità ad ipotesi di responsabilità oggettiva affermando che la norma prevede anche un rapporto di causalità psichica, nel senso che l'ipotesi di reato più grave — sequestro di persona con morte dell'ostaggio —deve potersi rappresentare alla psiche dell'agente come uno sviluppo logicamente prevedibile di quello effettivamente voluto, e quindi interpretare la norma nel senso di riservare la previsione del comma 3 alle ipotesi di omicidio volontario e quella del comma 2 a tutte le altre ipotesi (colpose, preterintenzionali) in cui sia ravvisabile un qualunque altro elemento psichico in capo al reo (D'Ambrosio, Delitti contro il patrimonio, in Giur. sist. dir. pen. Bricola, Zagrebelsky, II, Torino, 1984, 1252).

Anche una parte della giurisprudenza seguendo un percorso già sperimentato in relazione all'applicazione della sentenza della corte costituzionale sopra richiamata tende a sostenere che deve essere presente comunque un qualche coefficiente di colpevolezza, una componente psicologica tale da rendere addebitabile all'agente l'evento morte, in quanto la morte del sequestrato dovrebbe quantomeno rappresentare una conseguenza prevedibile o possibile del sequestro. Ancora più esplicite sono quelle pronunce che richiedono ai fini dell'affermazione di responsabilità ai sensi del comma 2 dell'art. 630 che i concorrenti abbiano avuto coscienza che l'omicidio si sarebbe verificato, e malgrado la loro volontà contraria abbiano ignorato o abbiano ritenuto il pericolo inesistente per colpa.(così Cass V, n. 28016/2013 che ha affermato che in tema di delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione, in ipotesi di morte del sequestrato non è sufficiente la sussistenza di un mero nesso di causalità materiale tra il sequestro e la morte dell'ostaggio, essendo necessaria l'esistenza di un coefficiente psicologico tale da rendere addebitabile all'agente, quanto meno per colpevole inerzia, l'evento morte).

Il terzo comma dell'art. 630 dispone che si applica l'ergastolo se il colpevole cagiona la morte del sequestrato. L'evento morte deve essere volontariamente provocato dall'autore del sequestro.

È stata affermata la rilevanza, ai fini dell'applicabilità della disciplina del comma 3  anche, del dolo eventuale (Cass. V, 25 giugno 2009), tanto da dichiarare che è ravvisabile la volontà omicida nel fatto degli agenti che pur consapevoli delle gravi condizioni del sequestrato, e quindi della possibilità del suo decesso in mancanza di adeguate cure, hanno continuato a mantenerlo prigioniero anche a costo di provocarne la morte, così accettando il rischio della verificazione dell'evento (Cass., I, 12 febbraio 1985).

In linea con questo indirizzo è stato recentemente affermato che l'aggravante è applicabile al concorrente che non abbia direttamente partecipato alla causazione del decesso dell'ostaggio, quando abbia accettato il rischio dell'evento morte del medesimo come eziologicamente determinato dal prevedibile sviluppo dell'azione criminosa (Cass. VI n. 4157/2013: fattispecie in cui la Corte ha confermato la sentenza impugnata che ha ravvisato il dolo eventuale in capo agli autori di un sequestro di un minorenne dettato da un intento vendicativo nei confronti del padre, collaboratore di giustizia, e finalizzato ad ottenere la ritrattazione da parte di quest'ultimo delle dichiarazioni accusatorie rese in merito alla strage di Capaci e ad altre azioni di «Cosa nostra», sebbene la morte del sequestrato fosse avvenuta a distanza di molto tempo dal rapimento).

La previsione nella norma della morte dell'ostaggio, come ipotesi aggravata del reato di sequestro estorsivo, ha altresì aperto un acceso dibattito sulla natura del reato e sulla ravvisabilità del concorso tra il reato previsto dall'art. 630 e quello previsto dall'art. 575. Il problema, rilevante soprattutto al fine di individuare il giudice competente a decidere in caso di morte del sequestrato, tribunale o corte di assise, è oggi superato, sotto questo profilo, dall'espressa previsione dell'art. 5 c.p.p., che assegna alla Corte di assise la competenza a giudicare del sequestro di persona a scopo di estorsione seguito dalla morte dell'ostaggio.

Il contrasto, che continua a mantenere un suo interesse, si è articolato fra coloro che hanno ritenuto di classificare il sequestro di persona a scopo di estorsione seguito dalla morte dell'ostaggio, fra i c.d. reati aggravati dall'evento e coloro che lo hanno ricompreso nella c.d. categoria del reato complesso.

Coloro che hanno sostenuto la natura di reato complesso della figura in esame, hanno evidenziato come la previsione dell'art. 84 discenda dall'applicazione dei principi relativi al concorso di norme giuridiche coesistenti, dando luogo a due diversi fenomeni. Può infatti aversi reato complesso sia quando i reati confluiscono nella nuova fattispecie criminosa quali elementi costitutivi, sia quando i singoli reati assumono il ruolo l'uno di elemento costitutivo l'altro di circostanza aggravante della nuova fattispecie criminosa: occorre peraltro specificare che quella del reato complesso non è una categoria generale a cui sono riconducibili un numero indefinito e imprecisato di reati in cui siano ravvisabili i presupposti del reato complesso, ma sono reati complessi, solo quelli che il legislatore qualifica come tali (Zannotti, Sequestro di persona ed uccisione volontaria del sequestrato: reato complesso e concorso materiale di reati, in Giust. pen., 1985, 708; Gazzaniga, 311). Pertanto secondo tale interpretazione la lettera della norma non lascia spazio a dubbi: l'avere il legislatore, con la modifica introdotta con l. n. 894/1980, distinto le due ipotesi di morte dell'ostaggio a seconda dell'elemento soggettivo in capo all'agente, ed avere stabilito per l'ipotesi di cui all'art. 630, comma 3, la pena dell'ergastolo, costituiscono indizi incontestabili della volontà del legislatore di creare un'unica fattispecie complessa, nella quale sia ricompresa, anche a livello sanzionatorio, la volontaria uccisione del sequestrato (Zannotti, 709).

Altri autori qualificano la figura in esame fra i reati aggravati dall'evento (Gazzaniga, 310, con riferimenti in nota a Dalia, I sequestri di persona a scopo di terrorismo od eversione: artt. 2, 9-ter e 10 d.l. 21 marzo 1978 n. 59, convertito con modificazioni nella l. 18 marzo 1978 n. 191, Milano, 1980), non senza, però, incorrere in critiche. Si sottolinea infatti come tale categoria di reati si distingua per il particolare atteggiarsi dell'ulteriore evento dannoso o pericoloso, che viene attribuito al soggetto agente per il solo fatto che è derivato dal suo comportamento criminoso, a prescindere da qualsiasi rilevanza dell'elemento soggettivo, e che pertanto, al massimo, potrebbe attagliarsi all'ipotesi di cui all'art. 630, comma 2 Così facendo si giungerebbe alla fusione di due situazioni (quelle di cui al comma 2 e al comma 3) che il legislatore ha volutamente disgiunto, distinguendole in due diversi commi, pur riguardando il medesimo evento naturalistico (Zannotti, 712).

Non è mancato, anche, chi ha sostenuto l'applicabilità dell'art. 301, ult. co., alla fattispecie di cui all'art. 630, sulla base della considerazione che diversamente opinando si configurerebbe un conflitto con la norma costituzionale, per disparità di trattamento con quella di cui all'art. 289-bis, avente identità di struttura criminosa e di sistema sanzionatorio e differenziantesi solo per il dolo specifico richiesto (scopo di terrorismo od eversione; scopo di estorsione) (Ramajoli, 42).

La giurisprudenza, dapprima divisa fra chi riteneva il concorso tra il reato di cui all'art. 630 e quello di cui all'art. 575, osservando che i due delitti hanno oggettività giuridiche diverse (Cass. I, 22 febbraio 1984; Cass., I, 30 maggio 1980) e chi ne affermava la natura di reato complesso, in cui il sequestro di persona a scopo di estorsione costituisce il reato base e l'omicidio una circostanza aggravante (Cass. II, 10 dicembre 1983; Cass. II, 18 giugno 1981), si è poi stabilizzata su tale secondo orientamento (Cass. S.U., 13 ottobre 1984; Cass. II, 18 gennaio 1993; Cass. II, 16 marzo 1992; Cass. II, 18 settembre 1989; Cass. II, 22 gennaio 1987; Cass. I, 14 dicembre 1984; Cass. I, 22 gennaio 2009), escludendo la possibilità di concorso tra il reato di sequestro di persona a scopo di estorsione e quello di omicidio, nel caso di morte dell'ostaggio. La stessa giurisprudenza ha anche escluso l'applicabilità nel caso di specie dell'art. 301, stabilendone il carattere di specialità e dunque l'inapplicabilità fuori ed oltre le situazioni da esso considerate.

Si ravviserà, invece, il concorso tra le due fattispecie criminose ogni qualvolta l'evento morte non riguardi la persona del sequestrato, ma terzi, che siano ad esempio intervenuti per impedire la realizzazione del sequestro (Cass., II, 11 marzo 1986).

Dalla qualificazione del reato di cui all'art. 630 fra i reati complessi discendono conseguenze anche in tema di concorso di persone nel reato: ed infatti la cessazione della permanenza del sequestro per effetto della morte del sequestrato non esclude affatto il concorso di coloro che, pur non avendo partecipato al sequestro, siano intervenuti successivamente con un'attività rivolta al conseguimento del prezzo della liberazione, giacché l'evento del reato fine non si è ancora realizzato (Cass. VI, 23 febbraio 1991).

Le attenuanti di cui ai commi 4 e 5 (le ipotesi di dissociazione)

L'art. 630 comma 4 prevede un'attenuante di natura “premiale” per il caso del concorrente che, dissociandosi dagli altri, si adopera in modo che il soggetto passivo riacquisti la libertà, senza che tale risultato sia conseguenza del prezzo della liberazione.

Problematica appare la qualificazione dell'attenuante in questione: se forma particolare di recesso attivo, fra l'altro con una previsione più favorevole di quella di cui all'art. 56 o circostanza attenuante speciale, con i conseguenti problemi di rapporto con l'attenuante comune di cui all'art. 62, n. 6 (D'Ambrosio, 1248). Si è già rilevato come la natura di reato permanente a consumazione anticipata non permetta di configurare ipotesi di desistenza volontaria e recesso attivo.

In tal senso la Cassazione che ha affermato che la circostanza attenuante speciale della dissociazione in tema di sequestro di persona presuppone, secondo la descrizione legale, la consumazione del delitto di cui all'art. 630, il quale, appartenendo alla categoria dei reati a consumazione anticipata, non richiede, per la sua configurazione, il conseguimento del riscatto; proprio tale presupposto la distingue, rendendola del tutto autonoma, sia dalla desistenza volontaria e sia dal recesso previsti dall'art. 56, i quali, invece, presuppongono che l'evento non si sia verificato (Cass. I, 19 ottobre 1983, Ienna).

In ordine ai rapporti con l'art. 62, n. 6, vi è stato chi ha sottolineato come nonostante l'apparente identità di formulazione normativa con l'art. 630, comma 4, gli ambiti di operatività delle due norme siano profondamente diversi; richiedendo la prima che l'attività svolta per elidere o attenuare le conseguenze dannose del reato sia spontanea ed efficace, mentre per la seconda è sufficiente un'attività diretta alla liberazione del sequestrato (Condorelli, 180).

La giurisprudenza sull'applicabilità al sequestro di persona a scopo di estorsione della circostanza attenuante comune appare contrastante: da un lato, l'orientamento che propende per l'inapplicabilità sottolinea come l'art. 62, n. 6 seconda ipotesi (attivo ravvedimento), si riferisca a quelle conseguenze del reato che non consistono in un danno patrimoniale, economicamente risarcibile e pertanto non sia applicabile ai reati contro il patrimonio, o che comunque offendono il patrimonio (Cass. II, 7 luglio 1986) ed evidenzia altresì che l'identità della ratio delle due attenuanti essendo identica non ne permette una applicazione contestuale (Cass., VI, 8 marzo 1982). Mentre l'orientamento favorevole all'applicabilità dell'attenuante di cui all'art. 62, n. 6 anche nell'ipotesi del reato di cui all'art. 630, pur ammettendo che l'attenuante in questione non può trovare applicazione nei reati contro il patrimonio, pone l'accento sulla plurioffensività del reato e proprio in considerazione della circostanza che il reato colpisce anche la libertà personale ritiene possibile anche una elisione o attenuazione delle conseguenze di carattere non patrimoniale che ne derivano, indipendentemente dalla riparazione mediante il risarcimento o le restituzioni (Cass. II, 10 dicembre 1983).

Sul piano interpretativo il punto più discusso concerne il dubbio se il ravvedimento debba sfociare nella effettiva liberazione dell'ostaggio o se sia, piuttosto sufficiente un'attività idoneamente dire a conseguire tale risultato

La risposta negativa troverebbe la sua giustificazione nella lettera della norma che pone l'accento sulla condotta e non sull'evento, prevedendo un'attività diretta alla liberazione del sequestrato, di modo che richiedere che questa avvenga effettivamente, significherebbe restringere l'ambito di applicabilità della norma e quindi attuare un'estensione della punibilità al di là dei casi tassativamente stabiliti dalla legge (Condorelli, 180). Inoltre tale orientamento appare in linea con le ragioni di politica criminale a base della norma che paiono imporre una linea interpretativa volta ad ampliare al massimo la portata della diminuente (per una disamina delle varie ipotesi interpretative v. D'Ambrosio, 1249). Può però affermarsi che la dottrina propende per la tesi che richiede l'effettivo conseguimento del risultato, anche sulla base della considerazione che le forme di dissociazione non sfocianti nella liberazione del sequestrato possono agevolmente essere ricondotte nell'attività comunque diretta ad impedire le ulteriori conseguenze dell'attività delittuosa, ricomprese nella attenuante di cui al comma 5 (Fiandaca-Musco, 175, Gallo, 21)

In giurisprudenza la ratio della norma è stata individuata essenzialmente nel favorire la liberazione dell'ostaggio senza pagamento del riscatto (Cass. I, 19 gennaio 1983 che ha affermato che l'attenuante speciale della dissociazione prevista dal 4° comma dell'art. 630 consiste in una vera e propria scissione della condotta di un concorrente rispetto a quella degli altri; tale comportamento, finalisticamente diretto a fare riacquistare la libertà all'ostaggio senza il pagamento del riscatto deve essere oltre che concreto ed effettivo, anche soggettivamente volontario; non è, però, richiesta la spontaneità, in quanto scopo della legge è essenzialmente quello di favorire la liberazione dell'ostaggio senza il pagamento del riscatto. È stato altresì affermato che per la tempestività dell'attenuante della dissociazione, prevista in tema di sequestro di persona, è sufficiente che essa avvenga anteriormente alla liberazione, senza pagamento del riscatto, dell'ostaggio (liberazione che deve essere, pur se in via mediata, il prodotto dell'intervenuta dissociazione e delle fornite informazioni) (nella specie: è stata ritenuta tempestiva la dissociazione avvenuta dopo l'arresto dell'imputato e dopo che erano state raccolte prove nei suoi confronti).

La giurisprudenza è infatti orientata nel senso di richiedere per l'applicazione dell'attenuante l'effettiva liberazione dell'ostaggio ed un ulteriore comportamento da cui poter desumere l'avvenuta dissociazione.

In tal senso Cass. II n. 2103/1998 che ha affermato che in tema di sequestro di persona, l'attenuante speciale prevista dal quarto comma dell'art. 630 cod. pen. per il concorrente che, dissociandosi dagli altri, si adopera per la liberazione dell'ostaggio senza che ciò avvenga in conseguenza del pagamento del prezzo del riscatto, presuppone che da parte di uno o più compartecipi vi sia una rottura dell'originario accordo criminoso, che tale rottura porti in concreto alla liberazione dell'ostaggio, che questa non sia conseguenza del pagamento del prezzo della liberazione; occorre pertanto una scissione della condotta del concorrente da quella dei correi, con oggettivo, concreto e finalizzato atteggiamento psicologico di contrapposizione rispetto agli altri e con attività positivamente diretta alla liberazione dell'ostaggio, ed è altresì necessario che tale comportamento sia oggettivamente rilevante, e non determinato da fattori esterni.

La scissione del concorrente dalla condotta dei correi richiede un oggettivo, concreto e finalizzato atteggiamento psicologico di contrapposizione rispetto agli altri — la dissociazione — e una attività positivamente diretta alla liberazione dell'ostaggio ed eziologicamente rilevante per il raggiungimento dello scopo. Il comportamento di detto concorrente deve essere oggettivamente rilevante e soggettivamente volontario, pur se non spontaneo, e non determinato da fattori esterni Si è così affermato che la circostanza attenuante speciale di cui all'art. 630, comma 4, non si comunica ai concorrenti non utilmente attivi nella liberazione dell'ostaggio. (Cass. II n. 30852/2013: fattispecie nella quale è stata negata la comunicabilità della circostanza al concorrente che — a liberazione dell'ostaggio già avvenuta, e nell'ignoranza dell'iniziativa già efficacemente e conclusivamente assunta dai complici — aveva condiviso la decisione di porre fine al sequestro, adoperandosi per la liberazione).

Lo stabilire se, in concreto, la liberazione dell'ostaggio sia conseguenza di un'attività positivamente diretta a tal fine costituisce un apprezzamento di fatto, insindacabile in sede di legittimità se adeguatamente motivato (Cass. I, 14 febbraio 1986; Cass. I, 20 febbraio 1981).

I requisiti richiesti per la sussistenza dell'attenuante, e cioè la volontarietà della condotta di dissociazione e l'essere la liberazione svincolata da qualsiasi collegamento con il pagamento del prezzo del riscatto importano che la stessa non sarà ravvisabile ogni qualvolta verrà a mancare uno dei due requisiti. Ed infatti la giurisprudenza ha escluso l'applicabilità dell'attenuante in esame in caso di autoliberazione del rapito (Cass. II, 12 maggio 1984), di liberazione sottoposta alla espressa condizione di pagamento del riscatto in un momento successivo (Cass. II, 25 ottobre 1988; Cass. II, 14 gennaio 1986), di pagamento parziale del riscatto (Cass. II, 17 febbraio 1987), di cessazione del sequestro per morte del sequestrato (Cass. II, 18 gennaio 1993).

Cass. V n. 43713/2002, ha precisato che, ai fini della concessione della circostanza attenuante della dissociazione diretta a far riacquistare al soggetto passivo la libertà, non è richiesto che la liberazione stessa sia conseguenza di una iniziativa spontanea del dissociato, occorrendo, invece, da un lato, che la dissociazione sia volontaria e che si realizzi anteriormente alla liberazione dell'ostaggio prima del pagamento del riscatto, dall'altro, che il comportamento del dissociato si traduca in fatti concreti, finalisticamente indirizzati alla liberazione del sequestrato ed eziologicamente rilevanti per il raggiungimento dello scopo della cessazione del sequestro.

La previsione di cui all'art. 630, comma 4, è stata anche sottoposta al vaglio della Corte Costituzionale nella parte in cui limiterebbe al concorrente singolo l'attenuante della dissociazione, senza consentire l'applicabilità nell'ipotesi in cui la decisione di liberare l'ostaggio derivi da una decisione comune di tutti i partecipi o nel caso in cui l'autore del reato sia un agente singolo. La questione è stata dichiarata infondata dalla Corte che, pur condividendo le osservazioni dell'autorità rimettente, ha con sentenza interpretativa di rigetto, offerto una interpretazione della norma conforme al dato costituzionale (Corte cost. 16 maggio 1984, n. 143). Ha sottolineato la Corte come il legislatore, pur preoccupandosi di porre l'accento sull'intenzione di favorire al massimo il pentimento di qualcuno dei partecipi, non ha inteso escludere dal beneficio né l'ipotesi dell'unico agente, né quella dell'unanime decisione di tutti i concorrenti di dissociarsi dal disegno criminoso liberando il sequestrato, dovendo nel primo caso ritenere che l'espressione «concorrente» sia stata usata in senso amplissimo comprensivo anche dell'agente, e nel secondo che proprio l'ipotesi dell'unanime deliberazione liberatoria di tutti i concorrenti obbedisca in modo superlativo alla ratio di conseguire innanzitutto la salvezza della vita e della libertà del sequestrato.

L'articolo 630 comma 5 prevede un'ulteriore attenuante speciale per il concorrente che, dissociandosi dagli altri, si adopera, al di fuori del caso previsto dal comma precedente, per evitare che l'attività delittuosa sia portato a conseguenze ulteriori ovvero aiuta concretamente l'autorità di polizia o l'autorità giudiziaria nella raccolta di prove decisive per l'individuazione o la cattura dei concorrenti

La norma si riferisce a due differenti condotte:

- il comportamento diretto ad evitare che il reato, già perfetto, sia portato a conseguenze ulteriori. Si tratta dei casi in cui il correo “dissociato” si adoperi per far sì che il reato già in atto si arresti allo status quo e non produca ulteriori conseguenze dannose sul rapito: si pensi al sequestratore che si adopera per far conseguire all'ostaggio la libertà, senza però riuscirvi, ovvero intervenga per evitare l'uccisione della vittima;

- la collaborazione con l'autorità giudiziaria nella raccolta delle prove e la cattura dei colpevoli. Si tratta dei casi in cui il soggetto offre un aiuto concreto, sostanziale determinante per l'individuazione e la cattura degli altri correi collaborando con l'autorità giudiziaria.

Un qualsiasi contributo, sia pure utile al raggiungimento della verità, non può integrare il contenuto della diminuente, e pertanto non possono essere tenuti in considerazione quei comportamenti successivi che, in un quadro di già avvenuta individuazione dei concorrenti nel reato, possono contribuire attraverso l'apporto di ulteriori elementi di prova, all'accertamento delle singole responsabilità (Cass., VI, 18 marzo 1994; Cass., VI, 23 settembre 1993; Cass., II, 21 marzo 1991; Cass., II, 17 novembre 1986; Cass. 28 giugno 1985). L'aiuto fornito dal concorrente dissociato deve essere determinante e decisivo all'orientamento dell'indagine nei confronti del vero colpevole, deve integrare cioè una collaborazione oggettivamente qualificata dal conseguimento delle specifiche prove necessarie al raggiungimento dello scopo (Cass., VI, 29 ottobre 1992; Cass., II, 4 ottobre 1985). L'aiuto prestato deve essere finalizzato alla raccolta e non già alla ricerca delle prove stesse che devono essere offerte almeno in gran parte dal concorrente medesimo (Cass., II, 8 luglio 1986; Cass., II, 22 ottobre 1985). L'attenuante non è configurabile nei confronti della persona che faccia recuperare le armi utilizzate per il sequestro ed indichi il nominativo del complice dopo che, a carico di quest'ultimo, erano già emersi inequivoci indizi di colpevolezza (Cass., VI, 37102/2012).

L'attenuante non è nemmeno applicabile al concorrente che si sia limitato ad indicare alcuni correi, in precedenza non conosciuti come tali, e nel contempo abbia scagionato altre persone che sono invece raggiunte aliunde da sicuri elementi probatori di reità (Cass., II, 10 maggio 1984; Cass., II, 14 ottobre 1983) o la cui condotta, pur collaborativa ai fini dell'individuazione dei correi, non possa ritenersi indicativa dell'effettiva dissociazione dai medesimi (Cass., VI, 15 luglio 2010).

Ulteriore requisito richiesto per l'applicazione dell'attenuante è che l'associazione criminosa sia ancora in atto per cui torni utile agli organi giudiziari o di polizia l'adoperarsi del dissociato, sia in relazione all'interruzione dell'attività delittuosa sia in ordine alla raccolta delle prove decisive per l'individuazione dei concorrenti. Ciò è la diretta conseguenza della ratio della norma: cercare di minare alla base le associazioni criminali attraverso la collaborazione di quei concorrenti che nella prospettiva di una diminuzione di pena, forniscano alla giustizia le notizie utili per un intervento disgregativo dell'organizzazione stessa (Cass., II, 22 giugno 1990; Cass., II, 29 novembre 1986).

L'attenuante in questione non è applicabile allorché gli elementi utili per la cattura degli autori del reato siano stati forniti esclusivamente da testi o da informatori della polizia giudiziaria (Cass., II, 30 aprile 1981).

Ai fini del riconoscimento dell'attenuante in esame sono del tutto irrilevanti i motivi per i quali il concorrente abbia deciso di collaborare con l'Autorità (Cass., VI, 29 ottobre 1992; Cass., II, 11 marzo 1987; Cass., II, 7 maggio 1985), essendo stata intenzione del legislatore solo creare uno strumento idoneo a provocare una frattura tra i correi con conseguente disfacimento del vincolo associativo delinquenziale (Cass., II, 26 giugno 1986; Cass., II, 1 marzo 1984). Infatti il requisito del «disinteresse» nella chiamata in correità, non può ritenersi incompatibile con l'aspettativa dell'imputato di ottenere vantaggi derivanti dall'applicazione di leggi di favore, non potendo il legislatore esigere un pentimento effettivo, ma solo una utile collaborazione e un concreto contributo alle indagini (Cass., II, 8 ottobre 1985).

Non potrà, invece, ravvisarsi l'attenuante speciale di cui all'art. 630, comma 5, in caso di confessione circa la partecipazione al sequestro di persona ed il ruolo svolto dai coimputati, intervenuta dopo che il soggetto passivo abbia riacquistato la libertà e dopo che tutti i concorrenti nel reato siano stati assicurati alla giustizia (Cass., I, 14 giugno 1994) o allorché l'imputato riveli in udienza alcuni nomi dei complici e meglio precisi la sua posizione di correo, in quanto si tratta di elementi, che, se non sono seguiti da oggettiva attività di collaborazione con la giustizia non pongono in essere alcun processo dissociativo (Cass., II, 15 aprile 1985).

Anche l'attenuante di cui al comma 5 può trovare applicazione sia nelle ipotesi in cui il reato sia stato commesso da un unico agente sia quando la decisione di dissociarsi dal reato provenga unanimemente da tutti i compartecipi (Cass., II, 6 marzo 1985; Cass., II, 24 marzo 1981; Cass., VI, 22 dicembre 2010).

L'art. 6 l. n. 82/1991 ha inoltre previsto con riferimento alle attenuanti dell'articolo 630 commi 4 e 5 che “se il contributo fornito dal concorrente del reato dissociatosi dagli altri è di eccezionale rilevanza, anche con riguardo alla durata del sequestro e alla incolumità della persona sequestrata, le pene ivi previste possono essere ulteriormente diminuite in misura non eccede ad un terzo”.

La giurisprudenza ha avuto modo di specificare relativamente all'operatività di detta circostanza che detto contributo deve essere «eccezionale» nel suo complesso, e deve quindi anche concorrere, in una qualche misura, ad assicurare l'integrità personale dell'ostaggio e ad abbreviare la privazione della libertà. (Cass I n. 5850/2001: nella specie, in applicazione di tale principio, la Suprema Corte ha ritenuto che correttamente fosse stata esclusa la sussistenza della circostanza in questione in un caso in cui l'apporto del dissociato, pur definito di determinante importanza, si era limitato alla sola fase delle indagini successive alla conclusione dell'attività criminosa).

L' attenuante in argomento non può trovare applicazione allorché il sequestro sia cessato con la morte dell'ostaggio (Cass. II, n. 2611/1993).

Altre circostanze

Aumenti di pena per questo reato sono previsti dall'art. 1, l.  n. 107/1985, sulla repressione dei reati contro le persone internazionalmente protette.

Le pene stabilite per i delitti previsti in questo articolo sono aumentate da un terzo alla metà se il fatto è commesso da persona sottoposta con provvedimento definitivo ad una misura di prevenzione personale durante il periodo previsto di applicazione e sino a tre anni dal momento in cui ne è cessata l'esecuzione ai sensi di quanto disposto dall'art. 71, comma 1, d.lgs.  n. 159/2011.

La Corte cost. n. 68/2012 ha introdotta una nuova ipotesi di circostanza attenuante qualora il fatto risulti di lieve entità

Rapporti fra circostanze

La deroga, prevista dall'art. 630, comma 6, alla regola generale della comparazione di circostanze riguarda le sole fattispecie disciplinate ai commi 2 e 3 della norma e non si applica, pertanto, al riconoscimento di circostanze attenuanti con riferimento all'ipotesi contemplata dall'art. 630, comma 1, per la quale si osservano le regole ordinarie (Cass., I, n. 14802/2012).

Sia la previsione del comma 4 che quella del comma 5 dell'art. 630 costituiscono circostanze attenuanti in senso tecnico in relazione alle quali va effettuato il giudizio di comparazione fra circostanze di cui all'art. 69, ed avendo oggetto giuridico diverso possono concorrere fra loro (Cass., II, 19 febbraio 1986; Cass., II, 7 maggio 1985). In particolare, l'attenuante di cui al comma 4 è inconciliabile solamente con quella prevista nella prima parte del comma 5 , in quanto l'evitare conseguenze ulteriori dell'attività delittuosa deve essere ricompreso nella più ampia e decisiva condotta della liberazione dell'ostaggio (Cass., II, 14 marzo 1984).

La circostanza aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità è configurabile anche nel caso di mancato conseguimento del riscatto. In tal caso, trattandosi di delitto che comunque offende il patrimonio, non è ravvisabile alcuna concettuale incompatibilità, purché si abbia la certezza della rilevante gravità del danno qualora il riscatto fosse ottenuto (Cass., I, 28 luglio 1982).

In caso di dissociazione del concorrente commesso avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416-bis deve essere riconosciuta, in forza del principio di specialità, esclusivamente l'attenuante prevista dall'art. 630, comma 5 e non anche quella di cui all'art. 8, l. n. 203/1991 (Cass., V, n. 19250/2013).

Rapporti con altri reati

La natura di reato permanente della previsione di cui all'art. 630 ha portato la giurisprudenza ad occuparsi del problema dell'ipotizzabilità del concorso fra il reato di cui all'art. 378 e quello di sequestro di persona a scopo di estorsione. La questione è stata risolta in senso positivo: è infatti problema di valutazione della prova quello di stabilire se si è avuta condotta favoreggiatrice o di concorso nel sequestro di persona (Cass. II, 16 febbraio 1985; Cass. II, 15 febbraio 1985). In particolare la differenziazione fra concorso e favoreggiamento va desunta dalla verifica dell'elemento psicologico. La consapevolezza del coinvolgimento del favorito nell'esecuzione del sequestro non implica da sola la compartecipazione se non sia accompagnata dall'animus socii, risultante da un positivo comportamento del soggetto (Cass. VI, 9 aprile 1998; Cass. II, 16 giugno 1992; Cass. II, 7 luglio 1986). Deve rispondere, pertanto, di concorso e non di favoreggiamento colui che abbia collaborato con la propria famiglia, autrice del sequestro, con il ruolo di vivandiere e cuoco per il sequestrato (Cass. II, 31 maggio 1990) o colui che abbia provveduto a ritirare una rata di riscatto (Cass. II, 7 luglio 1986), o ancora colui che si sia adoperato per il conseguimento del prezzo della liberazione, la cui richiesta è strettamente collegata con la protrazione della prigionia quale strumento di costrizione della volontà altrui (Cass. II, 25 settembre 1985).

Proprio la necessità di sanzionare comportamenti, che pur se eventualmente ispirati da esigenze di solidarietà con i famigliari della vittima, sono ritenuti di intralcio all'attività investigativa della polizia giudiziaria, diretta alla ricerca del sequestrato e alla sua liberazione e, nel contempo, ad assicurare i colpevoli alla giustizia ha portato il legislatore ad introdurre la norma di cui all'art. 1, comma 4, d.l. n. 8/1991 conv. in l. n. 82/1991. Tale norma prevede l'applicabilità dell'art. 379 a chi, al di fuori dei casi di concorso nel delitto di cui all'art. 630, si adopera con qualunque mezzo al fine di far conseguire agli autori del delitto medesimo il prezzo della liberazione della vittima (Amato, 84).

Anche con riferimento a tale nuova ipotesi di favoreggiamento il discrimine fra il reato di intermediazione e il concorso sarà il diverso atteggiarsi del dolo: nell'intermediazione il reo non agisce di concerto accanto ai sequestratori, ma si muove su di un piano diverso con lo specifico intento di favorire il pagamento del riscatto. Nel concorso il reo, in ipotesi anche successivamente alla privazione della libertà di una persona, «partecipa» al reato per agevolare il pagamento del riscatto (Cass. I, 5 dicembre 2000). A suo favore sarà inoltre configurabile la causa di giustificazione dello stato di necessità solo qualora ricorrano ulteriori, concreti elementi di pericolo per l'ostaggio, non essendo sufficiente la mera privazione della libertà personale di questi a scriminare l'attività dell'intermediario (Cass. I, 5 dicembre 2000).

La tipicità del reato di sequestro di persona che è data dal dolo specifico e dalla previsione di una mercificazione della persona, come risulta dalla stretta correlazione posta tra il fine del sequestro, che è il profitto ingiusto, e il suo titolo, cioè il prezzo della liberazione ha portato la giurisprudenza ad esaminare più volte i problemi afferenti la configurazione del reato di cui all'art. 610 e i rapporti fra questo e le analoghe figure di cui agli artt. 605 e 629. Orientamento costante, al fine di distinguere le varie figure di reato, è quello di accentrare l'attenzione sull'elemento dell'ingiusto profitto quale prezzo della liberazione, cui deve corrispondere l'utilizzo del sequestro per conseguire lo scopo. Sull'argomento deve richiamarsi la giurisprudenza indicata allorché si è trattato l'elemento soggettivo del reato. Anche con riguardo ai rapporti con il reato di cui all'art. 393 si richiama la giurisprudenza indicata allorché si è trattato l'elemento soggettivo del reato.

È pacificamente ritenuto possibile il concorso fra i reati di violenza privata di cui all'art. 610 e quello di sequestro di persona a scopo di estorsione, non potendo ritenersi che ogni atto di violenza cui la vittima sia sottoposta durante il sequestro rimanga assorbita dalla fattispecie di cui all'art. 630. Infatti il sequestro di persona priva la parte offesa della libertà di movimento e della scelta del luogo in cui stare; nella fattispecie prevista dall'art. 630 invece è tutelata la libertà psichica di fare o di non fare alcunché senza essere costretti da altri. La coazione al compimento di singoli atti che, senza la minaccia o la violenza, il soggetto passivo non avrebbe compiuto, costituisce non già una modalità o un elemento della condotta del delitto di sequestro di persona, bensì una attività ulteriore e distinta che, a prescindere dalla situazione di privazione della libertà di movimento integra dunque l'autonomo reato di violenza privata concorrente con quello di cui all'art. 630 (Cass. VI, 16 marzo 1995; Cass. II, 16 marzo 1992; Cass., I, 29 dicembre 1970).

Sempre in considerazione del fatto che qualunque violenza che non sia intesa come generica coazione non incidente su interessi specificamente tutelati esula da quella necessaria alla realizzazione di cui all'art. 630 ha portato a ritenere la concorrenza del reato di sequestro di persona a scopo di estorsione e quello di lesioni (Cass. II, 1 febbraio 1984), del reato di sequestro di persona a scopo di estorsione e quello di violenza sessuale (Cass. II, 26 settembre 1984).

Concorre con il reato di sequestro di persona a scopo di estorsione quello di evasione (Cass. I, 27 marzo 1981) in quanto tutelanti beni giuridici diversi.

Le questioni di legittimità costituzionale

Oltre a quanto sopra indicato circa la pronuncia della Corte Costituzionale sull'applicabilità dell'attenuante della dissociazione all'unico partecipe o a tutti i correi che abbiano unanimemente deciso per la liberazione dell'ostaggio, altri profili di illegittimità costituzionale sono stati denunciati e dichiarati infondati dalla Suprema Corte di legittimità. In particolare, è stata ritenuta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 630, sollevata con riferimento agli artt. 3 e 25 Cost., nella parte in cui prevede la stessa pena in caso di conseguimento o meno del prezzo del riscatto, in quanto per la configurazione giuridica assunta dal reato, il cui elemento soggettivo è il dolo specifico in relazione al conseguimento del profitto, la realizzazione di questo non dà luogo a disparità di trattamento fra situazioni omogenee, perché si tratta di una componente che non rientra nell'economia del reato e si configura indifferente ai fini della sua concretizzazione (Cass. II, 4 aprile 1987; Cass  I, 28 giugno 1985).

È stata altresì ritenuta infondata la questione di costituzionalità sotto il profilo di una disparità di trattamento punitivo tra l'ipotesi aggravata dalla morte del sequestrato e quella, minore, della liberazione dell'ostaggio (Cass, II, 12 maggio 1984).

La Corte cost. ha ritenuto inammissibile, affermandone peraltro incidenter tantum anche l'infondatezza, la questione sollevata dal Tribunale di Padova che ravvisava il contrasto dell'art. 630 con gli artt. 3 e 27 Cost. nella parte in cui stabilisce la pena minima di anni venticinque di reclusione in difetto di circostanza attenuante speciale per i fatti di minore entità o gravità (Corte cost. n. 163/2007).

La Corte cost. ha ritenuto altresì infondata la questione di illegittimità costituzionale dell'art. 630 per contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost. nella parte in cui non prevede la circostanza attenuante prevista dall'art. 3, l. n. 718/1985 – ora art. 289-ter - in forza della quale se il fatto è di lieve entità si applicano le pene di cui all'art. 605. La Corte dopo aver ribadito come la disciplina del sequestro di ostaggi non costituisca comunque un tertium comparationis idoneo a dimostrare il vulnus costituzionale denunciato, trattandosi di fattispecie criminosa più ampia e generica rispetto al delitto di cui all'art. 630 come evidenziato dalla clausola di sussidiarietà espressa con cui la norma sul sequestro di ostaggi esordisce, ha sottolineato che lo scopo di conseguire un ingiusto profitto previsto dall'art. 630 rappresenta una species negativamente connotata rispetto al generico fine di costringere un terzo a compiere qualsiasi atto o ad astenersene previsto dall'art. 3, l. n. 718/1985 (Corte cost. n. 240/2011).

È stata invece infine ritenuta fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 630 prospettata con riferimento alla mancata previsione di una circostanza attenuante quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell'azione, ovvero la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità (Corte cost. n. 68/2012; sugli effetti della declaratoria in sede esecutiva: Cass. I, n. 5973/2014). La Corte ha ritenuto fondato il contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost. avendo, in questa occasione, il remittente assunto come tertium comparationis l'art. 289-bis in relazione alla previsione della circostanza attenuante di cui all'art. 311. Osserva infatti la Corte come le due norme, l'art. 630 e l'art. 289-bis, siano strettamente affini e sostanzialmente omogenee sotto più profili: la comune matrice storica, l'identità della condotta integrativa dei due delitti che si distinguono solo in rapporto alla finalità che sorregge la condotta, l'identità della pena prevista per la fattispecie base, la previsione di identici aggravamenti di pena collegati alla morte del sequestrato di intensità crescente a seconda che si tratti di conseguenza non voluta dal reo o di evento volontariamente causato, la previsione di analoghe circostanze attenuanti correlate alla «dissociazione» dell'agente dagli altri concorrenti nel reato ed infine la previsione di una ulteriore diminuzione di pena a favore del «dissociato» che fornisca un contributo di eccezionale rilevanza «anche con riguardo alla durata del sequestro e alla incolumità della persona sequestrata». Sottolinea ancora la Corte come identica sia anche la disciplina del concorso eterogeneo di circostanze e come siano state introdotte nell'ordinamento due clausole generali di equiparazione (artt. 9-ter e 10, d.l. n. 59/1978) che stabiliscono come le norme del codice penale che richiamano l'art. 630 e tutte le norme processuali valevoli in rapporto al sequestro estorsivo si applichino anche al sequestro terroristico ed eversivo. Se a ciò si aggiunge la circostanza che comune è anche il principale bene giuridico tutelato da entrambe le norme ossia la libertà personale, la conclusione non può che essere, secondo la Corte, la manifesta irrazionalità, con conseguente contrasto con l'art. 3 Cost., della mancata previsione, in rapporto al sequestro di persona a scopo di estorsione di un'attenuante per i fatti di lieve entità analoga a quella prevista dall'art. 311 per il reato di cui all'art. 289-bis.

A parere della Corte inoltre la norma non va esente da censure nemmeno con riferimento all'art. 27 Cost. ed invero dopo la sentenza delle S.U. della Corte di Cassazione (n. 962/2004 che ha di fatto esteso l'applicabilità dell'art. 630 a fatti criminosi decisamente meno gravi, la previsione di una risposta punitiva di eccezionale asprezza non si conforma al principio di proporzionalità della pena al fatto concretamente commesso, con la conseguenza che una pena palesemente sproporzionata vanifica, già a livello di comminatoria legislativa astratta la finalità rieducativa.

Il condannato con sentenza definitiva non può, a seguito della sentenza della Corte cost. n. 68/2012, richiedere in sede esecutiva il riconoscimento dell'attenuante di cui all'art. 311, essendo precluse al giudice dell'esecuzione quelle valutazioni discrezionali, necessarie per ritenere applicabile l'attenuante in parola (Cass. I, n. 28468/2013).,

La Corte costituzionale, con sentenza dell'8 luglio 2021, n. 143, ha dichiarato l'illegittimità dell'art. 69, comma 4, nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante del fatto di lieve entità - introdotta dalla sentenza C orte. cost. 23 marzo 2012, n. 68/2012, in relazione al reato di sequestro di persona a scopo di estorsione - sulla circostanza aggravantedella recidiva di cui all'art. 99, comma 4.

La responsabilità dell'ente

È prevista la responsabilità amministrativa da reato dell'ente in relazione alla commissione del delitto in esame dall' 24 ter d.lgs. n. 231/2001, che prevede la sanzione pecuniaria da 400 a 1000 quote.

Profili processuali

Il reato è di competenza della Corte d'assise in forza dell'art. 5 comma 1 lett. a) c.p.p. così come modificato dal d.l. n.10/2010 convertito con modificazioni nella l. n. 52/2010. A norma della disposizione transitoria contenuta nella suddetta normativa la nuova competenza della corte d'assise si applica anche procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del decreto, solo nel caso in cui alla data del 30 giugno 2010 non fosse stata ancora esercitata l'azione penale.

La Corte Costituzionale con sent. n. 213/2013 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 275, comma 3, secondo periodo, c.p.p., come modificato dall'art. 2 d.l. n. 11/2009, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 38/2009, nella parte in cui — nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all'art. 630 c.p., è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari — non fa salva, altresì, l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.

Secondo Cass. I n. 3758/2016 il divieto di concessione di benefici penitenziari (nella specie permesso premio) previsto dall'art. 58-quater, comma 4, ord. pen. nei confronti dei condannati per i delitti di cui agli artt. 289-bis e 630, che non abbiano effettivamente espiato i due terzi della pena irrogata o, nel caso dell'ergastolo, almeno ventisei anni, opera anche nei confronti dei soggetti che abbiano collaborato con la giustizia.

L'arresto è obbligatorio in flagranza. Il fermo è consentito così come le misure cautelari personali.

La procedibilità è d'ufficio

Bibliografia

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